La storia
In questi giorni uno spot pubblicitario, realizzato da una catena di supermercati, ha catalizzato l’attenzione dei media e dei commentatori politici.
Per chi non lo avesse visto ne riassumo brevemente i contenuti.
Una bambina di circa 8/9 anni, al supermercato, insiste con la mamma per acquistare una pesca. Tornata a casa con la mamma, il papà la va a prendere: evidentemente una coppia di divorziati.
Con una piccola e ingenua bugia la bambina consegna la pesca al papà e gli dice che è la mamma a mandargliela. Il padre, un po’ stupito, la assicura che la sera stessa telefonerà alla mamma per ringraziarla. La bambina sorride soddisfatta e felice.
Attraverso il gesto, e soprattutto la piccola ingenua bugia, ella ha tentato di ricostruire, se non un rapporto, una comunicazione tra i due.
Prima di analizzare i commenti e trarre le conclusioni sul significato dello spot, segnalo il contenuto emotivo del breve cortometraggio sul quale tutti i commentatori sono d’accordo.
Il corto, attraverso la situazione descritta, il linguaggio del corpo, gli sguardi dei protagonisti etc., ci propone una situazione di dolore e sofferenza. Specialmente per la bimba a causa della separazione dei genitori. L’autore attribuisce alla situazione di questa famiglia una valenza negativa, in quanto artefice di sofferenza e dolore, e al contempo sub liminalmente ci suggerisce la positività della situazione opposta, ovvero di una famiglia unita e tradizionale. Con altre parole possiamo dire che il corto suggestivamente propone un modello di famiglia “normale” e perfetta quindi felice, di contro ad un modello imperfetto, cioè “anormale” e infelice.
I commenti
Lo spot ha suscitato, proprio per ciò, il dissenso della totalità dei commentatori dello schieramento culturale di sinistra. Molto semplificando possiamo dire che questi contestano come aprioristico e falso il presupposto che le situazioni di divorzio siano per sé dolorose e sofferenti, osservando che moltissime sono le famiglie così fatte e che tale situazione familiare, non solo non deve essere considerata a priori come negativa, ma anzi risponde ad uno dei tanti modelli di famiglia ormai affermatisi. Molti sarebbero, infatti, i modelli spontaneamente determinatisi nella evoluzione della società, con evidente allusione anche alle famiglie omosessuali, con genitorialità surrogata etc., all’interno dei quali la vita scorre ugualmente e ugualmente serena e felice, perché tutti ugualmente validi. Non esiste quindi il concetto di “normalità” perché tutto è normale a se stesso.
Il giudizio insito nel piccolo corto accrediterebbe, invece, la tesi che l’unico modello di famiglia “accettabile” e possibile sia quella stile “Mulino Bianco”, modello inverosimile, fantasioso, per altro inesistente se non nella rappresentazione ideale di codini reazionari. Questa visione sarebbe quindi arretrata, retrograda.
Per soprammercato accusano coloro cui lo spot piace, di coltivare un intento politico volendo attentare all’istituto giuridico del divorzio.
Le due culture
L’intento di queste note non è quello di difendere l’una o l’altra tesi sulla utilità, positività, giustificazione del divorzio, e men che mai di metterne in discussione l’istituto stesso, che essendo prettamente atto giuridico, appartiene alla sfera di Cesare e non a quella di Dio, ma di comprendere quale sia il significato di questa contrapposizione, cioè il sostrato culturale su cui ciascuna delle due visioni si basa.
Si tratta, in realtà, di due culture che si manifestano divisive e in acerrima e insanabile contrapposizione, non solo in questa circostanza ma anche in centinaia di altre situazioni rilevanti nella nostra vita, sotto il profilo sia politico e giuridico, sia etico e morale, dal divorzio all’aborto, dall’immigrazione alla riforma fiscale, dalla istruzione all’assistenza, dal reddito di cittadinanza ai servizi pubblici, dall’eutanasia, alla adozione, e così via, a prescindere dalla efficacia delle soluzioni proposte. Culture del tutto inconciliabili tra loro perché fondate su presupposti spirituali, etici e trascendentali agli antipodi (con buona pace dei cattolici di sinistra un tempo andato chiamati spregiativamente catto-comunisti, termine ormai lessicalmente desueto perché politicamente scorretto).
La Cultura così detta progressista
Il giudizio negativo promana da una Cultura a torto definita progressista, ma più esattamente relativista nella sua genesi e nelle sue manifestazioni.
La Cultura, infatti, è un sistema di elementi (saperi, opinioni, credenze, costumi e comportamenti anche stereotipizzati) che caratterizzano un gruppo umano. Essa può maturarsi o attraverso un processo di sedimentazione delle esperienze condivise da ciascuno dei membri nel corso della storia, cioè presentarsi come una particolare eredità storica che nel suo insieme definisce i rapporti all'interno di quel gruppo sociale e quelli con il mondo esterno. In tal caso la Cultura è giustificata e legittimata dal riferimento a Valori, Principi, ma anche logiche, prassi, manifestazioni artistiche etc., conservate dal passato nel corso dei secoli, in quanto condivise e giudicate fondanti l’identità del gruppo sociale.
Oppure può essere costituita da elementi, Valori Principi e quant’altro, che si desumono di volta in volta dall’emergere di desideri scambiati per diritti, da egoismi scambiati per Valori e che si autolegittimano e autogiustificano, per il solo fatto di esistere nella realtà e di essere condivisi da coloro che di codesta Cultura sono gli artefici e i fruitori, quindi giudici di se stessi.
Questa Cultura trae giustificazione e legittimazione da sé stessa, dal suo divenire spontaneo privo di direttrici di orientamento o di alcun momento di verifica di effettività o di valutazione assiologica. I Valori e Principi, etici, morali e sociali, via via elaborati nel contingente si autogiustificano e divengono elementi della cultura solo perché condivisi dalla parte più attiva, militante, dominante in termini di forza sia economica, sia istituzionale e politica, talvolta materiale o autoritario/repressiva (l’esperienza dei totalitarismi del XX secolo ci insegna).
Per tale motivo una simile genesi conduce ad una cultura relativista, contro cui Benedetto XVI si è battuto nel corso di tutto il suo (purtroppo) breve pontificato, perché si fonda su elementi che pretendono per sé di rappresentare l’assoluto, rifiutando una qualsiasi comparazione valoriale. L’uomo, e la sua Cultura, sono così realmente misura di sé stessi, perché impossibile è il loro confronto con altri modelli culturali cui riconoscono a mala pena il diritto di esistere (quasi sempre solo a parole) ma di cui negano qualunque Valore e, soprattutto, la funzione di pietra di paragone. Non a caso la Cultura così detta progressista si esprime nel politicamente corretto, cioè nella negazione perfino dell’espressione verbale degli elementi lessicali delle altre culture, scimmiottando pateticamente la Neo Lingua del Grande Fratello orwelliano e realizzando, di fatto, il più ampio fenomeno di censura delle idee nella storia, vera espressione di totalitarismo e intolleranza. Usando uno stereotipo proprio di tale cultura, potremmo dire che i veri fascisti stanno a sinistra.
L’assenza di una visione olistica dell’uomo e della sua storia nella quale è calato e dalla quale proviene, così come la trascuratezza nel ricercare e dare importanza al modello antropologico formatosi nella sua verità storica secolare, conduce all’accettazione di qualsiasi visione dell’Uomo e di qualsiasi pseudo Valore o Principio comunque postulato in maniera acritica e aprioristica. Non esistono punti di riferimento certi, perché ogni situazione e decisione sono legittimate come cosa buona in sé, sol per il fatto di essersi storicamente realizzate.
Mancando punti di riferimento tutto è relativo e tutto è lecito perché tutto è buono in quanto creazione nel divenire dell’umanità. Non esiste il concetto di normalità né di compatibilità, tutto si giustifica. Bene e male, giusto e sbagliato, normale e anormale diventano non solo attributi mobili predicabili di qualsiasi situazione e del suo contrario, ma a ben vedere perdono qualsiasi significato assiologico proprio perché privi di uno strumento di misurazione e confronto. Finiscono col non esistere.
La Cultura conservatrice
La filosofia opposta, quella da cui lo spot promana, si fonda sugli elementi di una cultura formatasi come sedimentazione di Valori e Principi che hanno disegnato nel corso dei secoli, un modello antropologico determinato. Questo modello diviene la pietra di paragone, lo strumento con cui giudicare la validità delle innovazioni culturali che la realtà di volta in volta ci propone, misurandone la corrispondenza ad esso. È una cultura conservatrice che, come vedremo è la vera cultura progressista.
Così, per tornare al punto di partenza, questa Cultura conservatrice non può che giudicare negativamente le situazioni di lacerazione proprie di una famiglia divorziata, perché tale modello non è conforme al Valore rappresentato dalla famiglia come disegnato nella storia millenaria. Non conta che, nella realtà, nella prassi personale il modello abbia talvolta fallito, ciò che conta è che esso abbia potuto confrontarsi con un modello culturale condiviso nella storia e assumere coscienza, sia pure nella caduta, della preferibilità e adeguatezza del modello tradizionale alle esigenze dell’Umanità e della società.
Una tale posizione è considerata dai fautori della visione così detta progressista come arcaica, retrograda, codina, antistorica, reazionaria e contraria ad ogni progresso.
Sbagliano.
Recuperare i Valori e Principi stratificatisi nella coscienza collettiva e presenti come fattori culturali è propedeutico a ricercare i mezzi per inverare di essi il futuro dell’Uomo, di ciascun uomo, e il futuro stesso della società. Il vero progressista è il conservatore, non nel senso denigratorio politicamente corretto cui il pensiero unico intende questo sostantivo, ma nel senso più vero del termine (conservare vale preservare): colui che si sforza di riconoscere salvaguardare il Bene per il futuro.
Invece che un abbandono acritico a tutte le novità più disparate che si producono nel corso della storia, il percorso di formazione culturale conservatrice consiste in una estrapolazione intelligente dei Principi e Valori immutabili, accompagnata dalla rielaborazione degli strumenti che ne permettono l’applicazione ed attuazione nel presente, ed in ogni presente.
Si costruisce così una Cultura non autoreferenziale, ma al contrario legittimata da una fedeltà a punti di riferimento certi e fermi.
È la visione liberal conservatrice che si contrappone diametralmente alla concezione così detta progressista.
Il cristiano dinanzi alla Cultura
Massimamente i Cristiani sono conservatori e progressisti, perché il modello antropologico cui si rifanno è il Figlio di Dio, Vero Dio e Vero Uomo.
Gesù, nella tradizione del Vecchio Testamento ha individuato i Valori e Principi assoluti posti dal Padre per l’identificazione del Popolo Eletto e la conservazione della Fede nell’unico Dio, quindi, nel Suo Vangelo li ha confermati e conservati proiettandoli, con la Sua predicazione e il suo esempio, nel futuro quale pietra di paragone per la stessa evoluzione sia storica sia spirituale dell’Uomo.
Di contro al relativismo, per sé sempre sterile e criminale (i totalitarismi tutti del XX secolo lo insegnano) la Parola di Dio attraverso Cristo è la vera pietra di paragone.
“Se Dio non esiste, tutto è permesso”, fa dire Dostoevskij a Raskòl'nikov in Delitto e Castigo.
La nostra Fede si basa esattamente sulla conservazione di verità attinte dal passato, da quel depositum fidei che costituisce l'unico patrimonio di tutte le verità insegnate agli Apostoli da Gesù, sia in ordine alla fede, cioè alla conoscenza delle cose di Dio, sia alla morale, cioè ai comportamenti.
In relazione a tale patrimonio l’Uomo retto si interroga costantemente sulla conformità dei suoi elementi culturali al modello divino, fiducioso che questo sia emerso nei secoli, quale legge di Dio, non casualmente ma per opera costante dello Spirito Santo nella Storia.